Un bell'articolo di Paolo Conti, pubblicato qualche tempo fa sul Corriere della Sera.
«Pur derivando da ragioni di tipo pratico, l' insegnamento nelle università e nei collegi pontifici determina una progressiva e ormai pienamente acquisita situazione in cui l' italiano è percepito non solo come lingua del territorio vaticano ma anche come lingua universale della teologia e del magistero teologico... L' italiano è ampiamente utilizzato dalla comunità internazionale dei teologi come lingua di scambio e comunicazione». Mentre l' Europa riduce di fatto a tre (inglese, francese e tedesco) gli idiomi veramente ufficiali dell' Unione, l' italiano può contare su una straordinaria agenzia planetaria che l' ha adottato come il proprio inglese: la Chiesa cattolica romana. Lo spiega molto chiaramente il saggio «Tra universalità e compromessi locali. Il Vaticano e la lingua italiana» di Franco Pierno che appare nel volume, appena uscito, intitolato L' italiano nella Chiesa fra passato e presente edito da Allemandi e frutto di un lavoro parallelo della Società Dante Alighieri e l' Accademia della Crusca con la promozione dell' ambasciata d' Italia presso la Santa Sede. Pierno, dal 2008 Assistant professor al dipartimento degli Studi Italiani della Toronto University, parte da un presupposto. Cioè che il Vaticano «inteso tanto come realtà territoriale quanto come sinonimo di Santa Sede, pur avendo un' apertura necessariamente universalistica, e di conseguenza un atteggiamento plurilingue, intrattiene un rapporto privilegiato e particolare con la lingua italiana». Formalmente non c' è una regola che lo dichiari lingua ufficiale del Vaticano ma è quella usata di fatto nella legislazione e nelle comunicazioni interne. Il latino resta la lingua ufficiale «per i libri liturgici e il magistero papale» ma ormai da anni la nostra è «la lingua veicolare all' interno di un territorio la cui popolazione, secondo le stime più recenti, è italofona al 40% mentre il restante 60% dichiara di parlare altre lingue». Un' abitudine antichissima, ricorda Pierno, che fa risalire a Martino V verso il 1420, dopo l' esilio avignonese, la decisione di ricorrere «alla lingua cortegiana romana di forte base toscaneggiante». In effetti, elenca il saggio, in italiano esce l' edizione principale de «L' Osservatore Romano» dal primo numero dell' 1 luglio 1861, seguito poi da versioni in molte altre lingue, e lo stesso avviene alla Radio Vaticana e per il sito web vaticano che, nel suo plurilinguismo, però «mostra facilmente una preponderanza della lingua italiana». Ma è soprattutto nell' insegnamento universitario che l' italiano si consolida come lingua «universale» della cattolicità per un semplice motivo organizzativo: «Nelle istituzioni pontificie i corsi sono tenuti, da ormai diversi decenni, in lingua italiana dopo una secolare tradizione didattica di lingua latina». Molto interessante un esempio proposto da Pierno a proposito del discorso di Benedetto XVI al campo di Auschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006. In quell'occasione, spiega l' autore, il Papa decide di non esprimersi in tedesco per «buon gusto». Quando elenca il dolore leggibile sulle lapidi («una polifonia plurilingue del dolore») lo fa in italiano: «La rievocazione di questo patrimonio comune del dolore espresso in modo multilingue non poteva avvenire che in una lingua ormai riconosciuta come universale e super partes dalla Chiesa: l' italiano».
Conti Paolo